La Blogfest e il feticcio dell’App

Ieri ho fatto un giro alla Blogfest di Riva del Garda. Ne è valsa la pena, anche solo per vedere Riva che è semplicemente stupenda. O per incontrare “colleghi blogger” che conosco da tempo è che non ho mai incontrato fisicamente. Sono riuscito anche a seguire qualche incontro.

In una sala che pullulava di iPad si svolgeva Fahrenheit 2011. Un incontro sul futuro dell’editoria con Ottavio Di Brizzi (RCS Libri), Alessandro Giglioli (L’Espresso), Salvo Mizzi (Telecom), Vittorio Zambardino (Repubblica) e Antonio Tombolini (Simplicissimus Book Farm).

Alcuni spunti interessanti ci sono stati. Ad esempio è stato confermato che su circa il 10% degli iPad italiani è stato acquistato un abbonamento a giornali come Repubblica o Corriere. Questo significa che il mercato ci può essere e un dispositivo “cool” come l’iPad, dove l’utente gioca e si diverte, può accogliere e rinnovare anche un settore in forte crisi come quello dell’editoria. Poi, certo, bisogna vedere anche il prodotto.

Altra riflessione di rilievo è quella sul mercato dei libri italiano: in Italia il mercato editoriale è molto concentrato. Questo significa che c’è una percentuale ridotta di lettori “assidui”, che da sola acquista gran parte dei libri venduti durante l’anno. Dato che i dispositivi di lettura sono ancora relativamente costosi, solo chi legge molto può essere interessato ad acquistarne uno. Quindi, paradossalmente, il mercato italiano è avvantaggiato nella transizione dal cartaceo al digitale.

L’ammissione generale è stata che gli editori italiani non sono assolutamente in ritardo nel passaggio digitale, ma il loro  periodo di riflessione e attesa è stato volontario. Sia per quanto riguarda i giornali sia per quanto riguarda i libri. Ma cosa porterà questa attesa? Gli editori hanno un’idea chiara di cosa fare?

Qui, sinceramente, mi sembra di aver percepito della confusione. L’idea è che oggi la priorità sia monetizzare, riservando contenuti di qualità a chi è disposto a pagare. Ma per farlo bisogna sistemare un sacco di… zucche. La zucca dei giornalisti che, per stessa ammissione dei presenti, sono reticenti nel cambiare abitudini e nell’acquisire le competenze necessarie a produrre un giornale multimediale. La zucca dei direttori, che non riescono nemmeno ad accettare l’idea di reimpaginare un giornale per adattarlo a nuovi dispositivi. La zucca degli editori, reticenti nel rivoluzionare la filiera della distribuzione e incerti sui prezzi da proporre. La zucca dei lettori, che si ostinano a considerare necessariamente gratuito il bene digitale, indipendentemente dal lavoro che ci sta dietro.

La soluzione a tutto questo è un vero e proprio feticcio digitale: l’applicazione. L’idea non è necessariamente sbagliata: l’applicazione è una sorta di pacchetto, una caramella ben confezionata con contenuti di qualità. Si scarica da Internet, ma non sta sul Web. L’applicazione può essere la reincarnazione del “web” in “prodotto”, qualcosa di nuovo in grado di cambiare le prospettive. Ma qualcuno, sul palco di Riva del Garda, ha detto che l’applicazione è diversa perché è “chiusa”. Mentre prima si tendeva a pubblicare tutti i contenuti e a spingerli su motori di ricerca e social network, negli ultimi tre anni ci sarebbe stata una marcia indietro, chiudendo e proteggendo il contenuti, e l’applicazione ne sarebbe l’esempio più alto.

Questa visione è rischiosa. Parafrasando Jessica Rabbit, le applicazioni non sono chiuse, le applicazioni sono chiuse… perché le disegnano così. Se non mettiamo i commenti su Repubblica cartacea, se non mettiamo la condivisione su Facebook degli articoli più interessanti, se non abbiniamo un social network abbinato all’applicazione, è solo perché chi ha creato l’applicazione ha preferito fermarsi così. Possiamo accettarlo, per i primi esperimenti. Ma togliere il concetto di apertura, dalle applicazioni, rischia di essere una marcia indietro, la negazione di anni di sviluppo di Internet. Ovviamente chi acquista un bene ci terrà e non darlo gratuitamente a tutti. Ma a condividerlo, almeno in parte, sì. L’applicazione e il web non devono essere percepiti come enti distinti, o toglieremo al digitale uno dei suoi pregi più importanti, che dovrebbero farcelo preferire alle forme tradizionali. La stessa Apple se n’è accorta, introducendo dei veri e propri social network nel suo App Store (Ping per la musica, Game Center per i giochi).

Ben venga il mercato delle applicazioni, ben venga il loro utilizzo per la creazione di un mercato. Ma vediamo di definire bene il concetto di applicazione: un pacchetto, è vero, ma un pacchetto da poter scartare e condividere con gli amici. Se questo non sarà chiaro, il rischio è quello di muoversi verso un impoverimento delle opportunità veicolate dal digitale.

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